L’Alzheimer è una malattia degenerativa che porta a una perdita progressiva delle capacità intellettuali coinvolgendo progressivamente memoria, orientamento e linguaggio, capacità di calcolo, apprendimento, ragionamento e giudizio. Si manifesta anche con una diminuzione del controllo emotivo, una compromissione del comportamento sociale e, nelle fasi più avanzate, del movimento.
La mancanza di terapie risolutive, rende preziosi gli approcci comportamentali.
Non esiste un test specifico per determinare se una persona è affetta dalla malattia e, spesso, si perviene ad una diagnosi per esclusione. Tuttavia una diagnosi precoce, attraverso una visita neurologica, è fondamentale sia perché offre la possibilità di trattare alcuni sintomi, sia perché permette al paziente di pianificare il suo futuro quando ancora è in grado di prendere decisioni.
Nel mondo circa 55 milioni di persone hanno una forma di demenza, in Italia si stima che la demenza colpisca oltre 1.480.000 persone. Un numero destinato a crescere molto velocemente.
(Fonte: www.quotidianosanita.it – 5 settembre 2024)
L’Alzheimer fa paura
(sintesi Articolo Dr. Elio Musco)
Nel 1987 moriva in un ospedale di New York all’età di 69 anni Rita Hayworth. Nel 1980 le era stata diagnosticata la malattia di Alzheimer. Il fatto che un’attrice così nota, per anni mito indiscusso di bellezza e fascino, ne fosse stata colpita e distrutta precocemente, scatenò una grande attenzione mediatica su una condizione patologica di cui allora si parlava pochissimo.
La malattia che porta il nome del neuropatologo tedesco che per primo la descrisse nel 1906, è caratterizzata da una rapida, o più o meno progressiva, perdita della memoria, del linguaggio, delle capacità di giudizio e di orientamento nello spazio e nel tempo, fino alla compromissione delle più semplici attività quotidiane. La conseguenza è la totale dipendenza dagli altri, dall’aiuto ambientale senza che siano disponibili per ora terapie risolutive.
La comunicazione non verbale (quella dei gesti, della mimica, del tono e del volume della voce, della postura) viene mantenuta a lungo nel percorso della malattia ed è pertanto quella che veicola meglio le emozioni in queste persone.
Rassicurare il malato che vive in un ambiente che non capisce, in un mondo a lui diventato ostile e sconosciuto, è il primo atto terapeutico cui sono chiamati i famigliari con il supporto del medico di medicina generale che spesso è la prima figura professionale che viene a contatto con il paziente.
Il medico di famiglia, ma anche qualsiasi altro specialista, prima di riflettere sulle modalità di relazione più “funzionali” ed efficaci deve tenere presente che nel malato di Alzheimer i deficit di memoria, di orientamento nello spazio e le difficoltà ad esprimersi si traducono in paura, smarrimento, ma anche in irrequietezza, agitazione, fino all’aggressività nei confronti di chi gli si avvicina.
L’impiego di farmaci sedativi o tranquillanti è il mezzo più a portata di mano, ma gli effetti collaterali, anche a dosi contenute, rischiano di abbassare l’attenzione e di accentuare il deficit di memoria.
Secondo me, il farmaco più importante è, e rimane, il medico che riesce a comunicare al paziente disponibilità, accoglimento e protezione, senza mostrare fretta.
Spesso però è lo stesso medico a non essere sereno per una serie di motivi. Il primo è il pregiudizio (cui non si sottrae neppure chi indossa il camice bianco) nei riguardi della persona anziana che, in quanto tale, è per definizione uno smemorato e quindi avviato alla perdita di efficienza mentale.
In realtà, è ampiamente dimostrato che la malattia di Alzheimer non è causata dall’invecchiamento anche se si verifica prevalentemente in tarda età. A confermarlo, l’alto numero di cosiddetti “grandi vecchi”, che mantengono un livello ottimale delle funzioni cognitive anche molto in là con gli anni.
In sostanza, quando un anziano consulta il medico perché accusa una perdita di memoria, deve augurarsi di non incontrare chi è guidato, spesso senza rendersene conto, dall’idea, difficile da estirpare, della senectus ipsa morbus (la vecchiaia è già, di per sé, una malattia).
La strada giusta è quella di stabilire un rapporto di empatia con il malato di Alzheimer, un contatto che permetta una vicinanza più profonda.